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di Cristiano Cavina

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Un racconto di Cristiano Cavina

Siro Cotti aveva impiegato ogni giorno dei suoi trentasette anni di vita per ritrovarsi a suonare un violino scordato in una piazza deserta, mentre gli spazzini ripuli-vano il selciato dalle cartacce e dalle foglie di insalata. Ci aveva messo una vita intera, per scendere fino a quel punto esatto. Sapeva di essere ancora giovane, eppure, a guardarla da dietro quelle corde lente che si affannava a graffiare con l'archetto, ebbe la consapevolezza di quanto fosse stato lungo, quello sprofondare, lento e logo-rante. Non suonava nemmeno per una mancia; tutti lo conoscevano e ormai nemmeno ci facevano caso.
Siro Cotti era nato con la musica. Suo padre, Sante Cotti, era la prima tromba del Corpo bandistico di Borgonero, e per tutta la vita si era ostinato a suonare lo stes-so strumento lasciatogli dal padre; era così consumato che sembrava intagliato nel legno e non forgiato nell'ottone. Quando Siro compì tre anni, suo padre gli regalò il primo stru-mento, un flauto traverso sberciato trovato chissà dove. Siro cresceva, e non se ne separava mai. Lo teneva abbracciato la notte, mentre dormiva, o lo riciclava come sciabola dei pirati o fucile dei soldati americani le rare volte che andava a giocare con i suoi coetanei.

Sante Cotti morì in un incidente stradale, ritornando a Borgonero con degli amici del corpo bandistico dopo un servizio alla Festa dell'Uva di Riolo Bagni. Siro aveva otto anni. Si convinse di non doversi mai separare dal suo strumento; temeva che se lo avesse perso, la musica se ne sarebbe andata via per sempre. Quando incominciò a fre-quentare le scuole medie, gli fu concesso di usarlo per le lezioni di musica, invece dei flauti normali che utilizzavano i suoi compagni di classe. La facilità con cui evocava le note dagli strumenti era impressionante. Gli era sufficiente guardarli per qualche tempo, in silenzio, con le mani incrociate dietro la schiena e il capo leggermente piegato da una parte, per capirne il funzionamento. Era come se li sezionasse e li riassemblasse mentalmente. La batteria, il clarinetto, la tuba, ogni strumento.
In seconda media si sedette al vecchio pianoforte nell'angolo dell'aula di musica; c'era la verifica e fino a quel momento i suoi compagni avevano straziato l'uno dopo l'altro l'Ave Maria di Schubert con i loro strumenti di plastica.

Fissò i tasti per un quarto d'ora, dopo aver posato con cura il vecchio flauto traverso sull'assicella del leggio. «Questa proprio la voglio vedere» disse il professor Soglia. Da pochi mesi, fresco di diploma di conservatorio, era diventato il nuovo direttore del Corpo bandistico di Borgo-nero. Si era trasferito a Parma per studiare a sedici anni; era stato il più giovane strumentista della banda, a suo tempo, e non poteva ricordare che quel ragazzino seduto al pianoforte, molti anni prima, era lo stesso bambino che durante le sfilate seguiva appiccicato Sante Cotti, percuotendo un paio di piccoli piatti. «Questa proprio la voglio vede-re», disse. «No» disse Siro senza voltarsi. Parlava raramente, anche perché la maggior parte delle cose che teneva a comunicare gli uscivano sotto forma di musica. «No - disse - questa la deve sentire». E suonò l'Ave Maria di Schubert con il vecchio pianoforte, che all'improvviso non parve più nemmeno scordato.

Quando terminò, i suoi compagni di classe fissavano i banchi, come al cospetto di qualcosa di troppo grande per loro. Era come se Siro si fosse improvvisamente tra-sformato nel Presidente della Repubblica, di più, nel Santo Padre, un'entità che nessuno è preparato a incontrare all'improvviso, un mercoledì mattina, durante l'ora di educa-zione musicale. E Siro, che era sempre stato un essere solitario, perché fin da piccolo niente gli era davvero interessato tranne che la musica, contemplò la distanza abissale tra lui e i suoi compagni di classe, e quasi gli mancò il fiato. Il professor Soglia si schiarì la voce. «Stasera alle sette ci sono le prove della banda» gli disse. Siro annuì. «Porta il flauto» aggiunse e, dall'occhiata che gli fu rivolta, capì che era stato stupido anche solo pensarla, una cosa del genere. Quei due non si separavano mai.

A dodici anni, Siro divenne la stella più splendente del Corpo bandistico di Borgonero, prendendo il posto lasciato anni prima da suo padre, e prima ancora da suo nonno. Era una manna piovuta dal cielo, per il professor Soglia. Poteva ricoprire all'evenienza tutti i ruoli. Tromboni, bassotuba, rullanti, grancasse, sassofoni. Il professor Soglia, di-sponendo di un tale prodigio, ampliò il repertorio, e il Corpo bandistico divenne all'improvviso un piccolo miracolo. Un anno suonarono persino di fronte al Santo Padre e al Cardinale Tonini, durante la visita papale a Faenza.

Siro dovette ripetere due volte la terza media, e a nulla valsero le suppliche della madre e del professor Soglia, che lo implorarono di iscriversi al conservatorio. Un grup-po di ragazzi di Borgonero, un po' più grandi di lui, aveva appena formato la prima band di rock della vallata, Siro si era ritrovato con una chitarra elettrica a tracolla, a suona-re alle feste o nei locali che tenevano aperti fino a tardi. Gli parve d'un tratto che la distanza tra lui e gli altri, notata per la prima volta dopo quella verifica suonata al pianoforte in seconda media, si stesse lentamente accorciando.

  CONTINUA ...»

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